Dialetto barocco, dialetto materico. Il codice dialettale nei romanzi di due autrici napoletane contemporanee

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1. Dialetto barocco. Lisario o il piacere infinito delle donne di Antonella Cilento

Antonella Cilento (Napoli, 1970), autrice di romanzi, raccolte di racconti (In terra straniera, 1999; La città difficile. Venti racconti da e per Napoli, 2006; Fonsino, 2007; M’ama? Mamme, madri, matrigne oppure no, 2008) e opere teatrali (Cafone!, 2014; “L’angelo della casa”, ovvero Emily Dickinson, 2012; Itagliani!, 2011), esordisce nel 1997 con il romanzo Ora d’aria, seguito nel 2000 da Il cielo capovolto. A partire dal 2002, collabora regolarmente con l’editore Guanda, per il quale pubblica i romanzi Una lunga notte (2002), Neronapoletano (2004), L’amore, quello vero (2005) e Isole senza mare (2009). Curatrice del programma radiofonico Storyville per il canale Rai Radio Tre, all’interno del quale ha proposto racconti pensati per la radio, interviene anche regolarmente su diverse testate locali e nazionali («il Mattino», «il Corriere della Sera», «L’Indice dei libri del mese», «il Sole 24 Ore», «il Riformista») con articoli di critica e di presentazione di nuove pubblicazioni. Risale al 2014 la pubblicazione del suo Lisario o il piacere infinito delle donne, romanzo finalista dell’edizione LXVIII del Premio Strega, edito da Mondadori, a cui seguono La Madonna dei mandarini (2015), Morfisa (o l’acqua che dorme) (2018) e Non leggerai (2019). Particolarmente legata al microcosmo napoletano, si è dedicata in più occasioni e in diverse forme alla descrizione del capoluogo campano: al già citato Napoli sul mare luccica, che può essere considerato a tutti gli effetti un vademecum prezioso per scrutare accuratamente l’universo urbano napoletano, si affiancano la raccolta La città difficile. Venti racconti da e per Napoli (2006) e il suo Bestiario Napoletano (2015), raccolta di ritratti di personaggi-tipo e figure archetipiche propriamente napoletane.
La Napoli del primo Seicento – periodo della storia cittadina in cui la città si trova sotto il controllo dei nobili spagnoli – fa da sfondo alle peripezie che contrassegnano la vita di Lisario (diminutivo di Belisario) Morales, protagonista di Lisario o il piacere infinito delle donne. Giovane figlia di un funzionario della corte di Filippo IV di Spagna, muta a causa di un malriuscito intervento chirurgico di rimozione del gozzo, Lisario viene sin da giovanissima promessa in sposa ad un anziano nobile napoletano. Per opporsi alla decisione impostale, la giovane sceglie di cadere volontariamente in una profonda catalessi. A porre fine alla sua narcolessia a comando è l’intervento di Avicente Iguelmano, medico cialtrone giunto dalla Spagna a Napoli nel tentativo di restaurare una carriera giunta ormai al termine. Nel Castello di Baia, dimora della giovane, egli abusa di questa, scoprendo che il sonno di Lisario è in realtà solo apparente. Lo sviluppo di un rapporto morboso che lega il medico a Lisario viene accompagnato, nel corso del romanzo, dalle numerose indagini anatomiche a cui il corpo della giovane è sottoposto. Destatasi dal suo sonno simulato, ancora vittima delle violenze inflittegli dal medico, Lisario si innamora di un giovane maestro di scena e pittore in attività presso il Castello. La relazione con quest’ultimo, figura antitetica e diametralmente opposta a quella di Avicente, culmina nella nascita di una figlia: l’evento conduce verso lo scioglimento della fitta trama del romanzo, che si conclude con il racconto degli ultimi anni della vita di Lisario, contrassegnati da una insperata felicità finalmente raggiunta.
Prima di osservare la configurazione delle scelte stilistico-linguistiche che caratterizzano il romanzo, è necessario innanzitutto riflettere con attenzione sull’ambientazione (tanto temporale, quanto spaziale) dell’opera. La scelta di una collocazione cronologica del racconto nella prima metà del XVII secolo è legata secondo l’autrice ad un parallelo ideologico che lega tale epoca a quella contemporanea:

Il Seicento è il secolo a noi più vicino, in termini di ossessioni e di temi. Un’ossessione fortissima del Seicento è il tema del corpo, sia nell’arte, sia nella gestione dell’immagine pubblica e della politica. Il corpo delle donne è molto rappresentato, però è quasi sempre nel Seicento un corpo ricco, obeso e cellulitico, perché se si è chiatti si è sopravvissuti alle guerre, alle epidemie, alle carestie. [Nel] Novecento [si] rappresenta il corpo delle donne in forma di ricchezza anoressica. Quindi, se si è ricchi si è magrissimi. Due ossessioni speculari e molto vicine. Un’altra ossessione fortissima del Seicento è la paura della morte [con] la sua rimozione, per cui in tutte le case, in ogni chiesa, in ogni palazzo, ci sono memento mori, cioè piccoli oggetti sacri che ricordano la presenza della morte. In maniera speculare, noi tendiamo a rimuovere la morte, a ricoprire […] l’informazione della morte […]. Il corpo e la morte sono alcune delle ragioni per cui ho scelto di ambientare questa storia in questo secolo, come uno specchio capovolto del nostro tempo1.

La scelta di un’ambientazione di tipo barocco spinge necessariamente verso scelte linguistiche specifiche: appare come obiettivo implicito dell’autrice il tentare di ricostruire, parallelamente alla storia di Lisario, una lingua di per sé composita – all’interno della quale emergono vistosamente elementi di un dialetto barocco – che (pur solo idealmente) possa avvicinarsi a quello parlato nel Seicento, restando comunque facilmente comprensibile per il lettore contemporaneo. Per tale motivo, dunque, la narrazione è svolta interamente in italiano, mentre sono presenti – soprattutto all’interno delle sequenze dialogiche – ispanismi o termini ed espressioni provenienti direttamente dalla lingua spagnola (i quali rispondono ad una necessità di caratterizzazione linguistica del periodo storico in cui la vicenda è ambientata), accanto a inserti dialettali significativi. La lingua variegata che viene sviluppata a partire da tali scelte stilistiche appare, tuttavia, una lingua artificiale, lontana da quella realmente parlata nella Napoli del Seicento2, così come osservato da Luigi Matt:

Romanzi incentrati su rievocazioni di un lontano passato, come […] Lisario e il piacere infinito delle donne di Antonella Cilento […], non mostrano concessioni verso quel recupero di tracce di italiano antico che ci si potrebbe attendere. Il processo di distacco dalla lingua della tradizione appare definitivamente compiuto: il passato non può più essere riattualizzato, ma solo citato. Gli arcaismi, ormai, si trovano quasi unicamente nei testi che si rifanno a qualche forma di plurilinguismo, o comunque in contesti che rendono il loro impiego esibitamente artificiale3.

Una lingua di questo tipo, per quanto artificiosa, si coniuga però alla perfezione con una narrazione pomposa, ricca, baroccheggiante: gli stessi inserti dialettali provenienti dal napoletano (spesso provenienti da un dialetto arcaico, molto lontano da quello contemporaneo), gli arcaismi finalizzati a ricreare l’italiano secentesco e i frequenti ispanismi contribuiscono, accordandosi con i richiami più o meno espliciti ai classici (l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, il Pentamerone di Giambattista Basile), a dare vita a una rete intertestuale ampia e fitta, che risulta estremamente interessante dal punto di vista narrativo quanto dal punto di vista linguistico4. È all’interno di tale contesto linguistico che viene a configurarsi un dialetto che, con le parole di Giuseppe Antonelli5, potremmo definire «dialetto per diletto», un dialetto che ritorna quasi allo spirito della bozzettistica regionale, alla caratterizzazione locale come elemento ludico-comico, sempre in una prospettiva sincronica. Nel suo Lisario, infatti, Antonella Cilento si muove verso un uso particolare del dialetto, il quale «anche quando viene considerato un caro estinto […] può continuare ad agire come importante lievito linguistico e stilistico»6: con queste parole Antonelli descrive alcune peculiarità linguistiche delle opere di autori del calibro di Gesualdo Bufalino e di Vincenzo Consolo, autori che possiamo considerare punti di riferimento linguistici per le opere di Cilento. Secondo Antonelli, tanto all’interno dei romanzi di Bufalino, tanto all’interno di quelli di Consolo, i reperti di archeologia dialettale sono «messi a reagire con molte altre componenti linguistiche, in una complessa ricerca espressiva»7. Allo stesso modo ciò avviene all’interno delle opere di Cilento, dove ad intrecciarsi costantemente sono dialettalismi e regionalismi, arcaismi, cultismi, disfemismi, forestierismi: elementi che vengono usati attentamente per raggiungere dal punto di vista storico-linguistico una ricostruzione accurata della realtà rappresentata, ma che contribuiscono alla fine alla creazione di una lingua artificiale, bozzettistica ed estremamente lontana da quella reale.
Se concentriamo la nostra attenzione sugli elementi dialettali, possiamo notare come questi appaiono con una certa frequenza8. Il primo personaggio che adopera il dialetto – seppur in misura minore rispetto ad altri, a causa della propria condizione fisica – è la stessa protagonista del romanzo. A causa del suo mutismo, Lisario non ha la possibilità di intrattenere conversazioni con altri personaggi attraverso scambi dialogici: la sua voce è presente, tuttavia, all’interno delle numerose lettere indirizzate alla Madonna, alla quale è particolarmente devota. Lisario impara in giovane età a leggere e scrivere e, in una forma quasi diaristica, racconta le vicende che si susseguono alla sua unica interlocutrice e confidente, con la quale può comunicare anche in assenza della voce. All’interno di queste missive sono presenti numerosi inserti dialettali, usati probabilmente dall’autrice per imitare in maniera fedele il parlato spontaneo giovanile (Lisario, infatti, all’inizio del romanzo ha solo undici anni), il quale è di per sé ricco di elementi provenienti dal bacino lessicale dialettale, riportati però all’interno di una dimensione scritta. Spesso gli inserti dialettali provengono da sequenze di discorso diretto riportato, pronunciate dalle serve della famiglia Morales (Immarella, Annella e Maruzzella) e citate dalla giovane («Nu guaio troppo esagerato», p. 9; «Come cucuzziello», p. 10; «Scignitella, agliòttiti la lengua», p. 10; «Povera criatura, senza lengua! Essa c’ ’a teneva accussì longa!», p. 11; «Nu viecchio vavùso, che stuommaco… Viecchio e zezzùso, che curaggio ammuglià stu cesso cu na criaturella», p. 12; «Mettiteve l’acqua di cucuzza… tèccoti nu piezzo de rossetto… pruova le pianelle de sughero arriccamate… guarda che belli sciqquaglie… prova la grandiglia… guarda la nova sosciata!», p. 54). In questo modo il dialetto viene qualificato come codice popolare, marcato dunque diastraticamente come appartenente ai ceti sociali più umili e, dunque, anche alla servitù. Sono le stesse dame di servizio a servirsi del codice dialettale all’interno delle sezioni dialogiche che le vedono protagoniste: «E ’o vino?» (p. 39), «Guarda ccà […] ma sti miedece so’ cecate? Essena sapè che tenimmo sott’ ’e veste» (p. 67), «Durmeva allerta allerta!» (p. 189), «Padrò, ve lo scommoglio il letto ’nfoso?» (p. 256).
Altro personaggio che all’interno del romanzo si esprime esclusivamente in dialetto è Tonno d’Agnolo, popolare truffatore, anch’esso di umili origini. Nelle numerose sequenze dialogiche che lo coinvolgono, il dialetto napoletano appare come unico codice dello scambio conversazionale, sia quando i suoi interlocutori sono napoletani («Iamme, doie parole e basta», p. 97; «Chillo è l’ommo chiù ommo ca ce sta a Napoli», p. 98; «Facite cumm’ha ditto Pàte Oliviè, spicciateve», p. 172), sia quando i suoi interlocutori provengano dalla Spagna («Dottò? Ve pozzo dicere la mia personale scopertà? ’O sesso d’è femmine nun stà mmiez’e cosce, s’o portano ccà», p. 70; «Favorite, dotto […]. Che faccia ca tenite… assettateve… che succede?», p. 87; «Addivertitevi, dottore bello, addivertitevi», p. 89). Se passiamo in rassegna i personaggi secondari, possiamo notare che sono numerosi quelli che si esprimono in dialetto all’interno delle sequenze dialogiche: la Bella Mbriana (femminiello protetto dal popolo napoletano per la sua abilità di predire i numeri estratti al lotto), gli anziani e i bambini, i santi (sant’Orsola – epiteto di Suor Orsola Benincasa –, san Gaetano e sant’Ignazio da Loyola, figure che appaiono nei sogni di Avicente Iguelmano), i teatini (chierici di corte che appaiono nei sogni del medico accanto ai santi, con i quali dialogano) e, infine, i cittadini napoletani che assistono in prima persona alle vicende relative alla rivolta del 1647 guidata da Masaniello. Tale episodio storico, incastonato all’interno della trama del romanzo, ha un peso specifico fondamentale per la trama, così come per le scelte linguistiche dell’autrice: anche nelle sequenze narrative relative al resoconto degli avvenimenti storici legati alla rivolta di Masaniello sono infatti presenti numerosi elementi dialettali. Una scelta di questo tipo risponde probabilmente ad una volontà autoriale di descrivere e caratterizzare la rivolta come fenomeno popolare, che parte dunque dal basso, legato strettamente a una frangia della popolazione cittadina esclusivamente dialettofona. Si veda, a tal proposito, il passo seguente:

Per tutta risposta Masaniello aveva ordinato di incendiare i palazzi. Prima i sagliuti, che guadagnavano panificando pane nero e piccolo invece di pane bianco e grande facendo pagare lo stesso prezzo: il chiatto duca di Caivano, Basile, che si era arricchito da garzone a signore, abitava allo Spirito Santo, vicino a Tonno […]. Fu ordinato lo strascino: i lazzari dopo l’incendio del palazzo se lo trascinarono per strada, tirandolo per i capelli. E così palazzo dopo palazzo, fino agli Eletti del Popolo – e Tonno, cacato sotto ma contento si fregava le mani perché i suoi concorrenti schiattavano uno a uno –, che la gente schifava in modo speciale, perché spogliavano le chiese e i poveri recitando il rosario: i lazzari incendiarono i palazzi loro e quelli dei loro figli, mentre quelli, in ginocchio, imploravano di non essere appicciati. Insomma, più il Viceré non dava aurienza a Masaniello, più venivano assaltati i palazzi e i signori accoppati a uno a uno. (pp. 190-191, cors. mio)

Da un punto di vista lessicale, è possibile evidenziare come, all’interno dell’opera, termini ed espressioni dialettali siano scelti con dovizia per richiamare un dialetto arcaico, lontano da quello contemporaneo. Tra i lemmi afferenti all’ambito gastronomico, accanto a termini tuttora utilizzati, possiamo scorgerne alcuni caratterizzati da una venatura arcaizzante: «maruzze» (‘lumache’, p. 47), «lenticole» (‘lenticchie’, p. 68), «scioscelle» (‘frutta secca’, p. 68), «mortelle» (‘bacche del mirto’, p. 68), «cetruli» (‘cetrioli’, p. 69). Troviamo facilmente lemmi afferenti agli ambiti dell’oggettistica e dell’abbigliamento tradizionale: «veste» (‘abito’, p. 37), «pianelle de sughero» (‘calzature con suola di sughero’, p. 54), «sciqquaglie» (‘gioielli’, p. 54), «grandiglia» (‘bavero alto indossato soprattutto dalle donne nel XVI e XVII secolo’, p. 54), «cuccuma» (‘recipiente di metallo usato per la preparazione del caffè’, p. 170); lemmi indicanti mestieri (tradizionali e non): «miedece» (‘medici’, p. 67), «prevete» (‘prete’, p. 108), «beccaio» (‘macellaio’, p. 197); termini ed espressioni relativi a pratiche tradizionali ormai in disuso: «ammuglià» (‘dar moglie’, p. 12), «v’hanno affatturato» (‘vi hanno maledetto’, p. 170), «strascino» (‘trazione di un oggetto pesante o di una persona’, p. 190), «scommoglio il letto» (‘rimuovo le coperte dal letto’, p. 256).
Estremamente ampio è, infine, il novero delle espressioni idiomatiche dialettali presenti all’interno del romanzo: «che stuommaco» (‘che stomaco’, usato in senso figurato come ‘che coraggio’, p. 12), «zompa pe’ ll’aria» (‘esplodere’, p. 46), «buttare il sangue» (‘gettare il sangue’, usato in senso figurato come ‘soffrire molto’, p. 61), «tiene […] a capa sciacqua» (‘ha la testa vuota’, p. 69), «gli aveva fatto […] un cesto di lumache in testa» (‘l’aveva tradita diverse volte’, p. 169), «durmeva allerta allerta» (‘era tanto stanco da dormire stando in piedi’, p. 189), «pèsola pèsola» (‘penzolante’, p. 190), «è tutta ’mmiria» (‘è tutta invidia’, p. 190), «sta nciarmanno» (‘sta architettando qualcosa’, p. 227), «tene ‘o mariuolo ’ncuorpo» (‘ha un ladro dentro di sé’, usato in senso figurato come ‘si sente profondamente in colpa’, p. 255), «attacca na pippa» (‘dà inizio ad un lungo discorso’, p. 255), «ha fatt’ ’a fine d’ ’e tracche» (‘è finito come i fuochi d’artificio’, usato in senso figurato come ‘ha vissuto un brutto epilogo’, p. 266).

2. Dialetto materico. La compagnia delle anime finte di Wanda Marasco

Wanda Marasco (Napoli, 1953) è autrice di romanzi e raccolte poetiche, regista e insegnante. Sin dall’età di sedici anni si dedica alla stesura di testi poetici: grazie alle sue prime raccolte Gli strumenti scordati (1977) e L’attrito agli specchi (1979) – alle quali si aggiungono, successivamente Deus Inversus (1980), Le fate e i detriti (1988) e Voc e Poè (1997) – viene riconosciuta come una delle autrici più promettenti del panorama tardonovecentesco italiano. Il periodo della sua vita trascorso a Roma si lega strettamente al mondo del teatro: alle sue riscritture e adattamenti, tra i quali spiccano Tutti quelli che cadono (1982) di Samuel Beckett, L’asino d’oro (1982) di Apuleio, Questi fantasmi! (2002) di Eduardo De Filippo, si aggiungono drammi da lei composti quali ‘O Tiatro ‘e Babbele (1999), Amor scuote la scena (2007) e Giulietta e le altre (2013). Nel 1994 pubblica il suo primo romanzo Madre e figlia, seguito da L’arciere dell’infanzia (2003), accompagnato da una prefazione di Giovanni Raboni. Tornata a Napoli, si stabilisce nel quartiere collinare di Capodimonte, che svolge un ruolo nodale nella sua vicenda biografica così come in tutte le sue opere narrative. Pubblica nel 2015 Il genio dell’abbandono, grazie al quale rientra nel novero dei cinque finalisti dell’edizione LXIX del Premio Strega. Il romanzo, ambientato a Napoli tra fine Ottocento e inizio Novecento, ripercorre le vicende biografiche dello scultore e disegnatore napoletano Vincenzo Gemito. L’opera descrive le fragilità psichiche e le sue sofferenze, i suoi talvolta complessi rapporti con il mondo circostante, il suo dissestato percorso artistico, ma restituisce anche una descrizione estremamente minuziosa della Napoli tardo-ottocentesca: non solo presenta «una strepitosa galleria di scorci e vedute di strade, case folle, persone, luci» ma anche «il resoconto di un modo di vedere, di vivere Napoli […], una napoletanità dolente e vitale insieme, vulnerabile ma non rassegnata; e soprattutto vertiginosamente profonda, non solo nelle oscurità della psiche»9.
Con il suo ultimo romanzo, La compagnia delle anime finte (2017), torna nuovamente tra i cinque finalisti del Premio Strega (edizione LXXI). Ambientato a Capodimonte, quartiere residenziale che sorge su una delle colline partenopee, definito all’interno dell’opera come la «Posillipo povera», in riferimento ad un altro quartiere collinare più prospero dal punto di vista economico, il romanzo racconta la storia di Rosa, di sua madre Vincenzina e del loro legame. A narrare le vicende che si susseguono nel romanzo è la stessa Rosa, la quale assiste alla morte della madre. È il dolore causato dalla perdita a generare in lei la necessità di raccontare – con una costante oscillazione tra il commiato funebre e uno struggente stabat mater – al fine di conservare nella mente in maniera nitida le memorie di una vita trascorsa l’una accanto all’altra. Il racconto, collocato cronologicamente nella seconda metà del Novecento, ha inizio con le vicende relative all’infanzia di Vincenzina, la quale – nata a Villaricca, comune della periferia settentrionale di Napoli – proviene dal mondo umile della campagna, e giunge fino agli anni della giovinezza della stessa narratrice, trascorsa tra i vasci dei vichi di Capodimonte. A questo nucleo tematico si aggiungono poi numerose storie secondarie che contribuiscono ad arricchire un micro-universo, quello napoletano, abitato dalle anime finte costrette ad accettare una realtà crudele e cruenta, i cui confini scemano progressivamente nel degrado e nella miseria. Un contesto socioculturale da cui la narratrice-protagonista tenta costantemente di riscattarsi, non riconoscendosi come parte di esso:

Narrare ha […] per Rosa un’importante connotazione catartica, che le permette di iniziare un doppio percorso di esperienza di vita: da un lato, la narrazione la avvicina al riscatto di certi aspetti del suo passato e, dall’altro, cerca di analizzare e superare la paura e la desolazione che ha sperimentato durante l’infanzia, e che sente ancora al momento del decesso della madre. Tutti i personaggi, in maggior parte femminili, che appaiono nel romanzo, hanno un progetto di riscatto e un ‘guasto’ da confessare, cosa che compiono grazie al fertile rapporto che si stabilisce fra la vita e la morte10.

All’interno del romanzo – così come appare evidente anche all’interno di altre opere di Marasco – è la città di Napoli a ricoprire un ruolo notevole in qualità di sfondo, in quanto cornice appropriata per contenere storie estremamente stratificate (speculari alla natura stratificata della città), che ruotano innanzitutto intorno al concetto di contrasto. Napoli, città composita, fatta di storie fortemente simboliche, enorme anfiteatro costantemente in movimento, si configura all’interno del romanzo come un luogo che di per sé si regge unicamente su contrasti e antagonismi: nel delineare i tratti della propria percezione dello spazio urbano napoletano, la stessa Marasco ha messo in evidenza come nella sua visione d’insieme Napoli possegga «le contraddizioni di una qualunque metropoli e di molte città del sud del mondo, [pur restando] capace come poche altre città al mondo di guardarsi nelle viscere e nelle zone ancora buie, di rigenerarsi come ha sempre fatto nella sua storia più profonda»11. Nelle zone d’ombra, nei vicoli nascosti, nei quartieri a ridosso del viavai cittadino, in territori oscuri e quasi impercettibili, si collocano le anime del mondo di Marasco, in primo luogo quella di Vincenzina, poi quella di Rosa e, intorno a loro, uno stuolo di spettri forzati a vivere una vita inquieta.
Dal punto di vista linguistico, La compagnia delle anime finte è un’opera in cui è possibile osservare una quantità decisamente consistente di elementi dialettali, relativi a quello che – ancora con un’etichetta coniata da Antonelli12 – potremmo definire «dialetto per idioletto». Con il termine idioletto facciamo qui riferimento all’insieme delle abitudini linguistiche individuali, all’insieme delle varietà d’uso (afferenti ad un dato sistema linguistico di una comunità) proprie di un singolo parlante. Riprendendo Antonelli, possiamo osservare come l’impiego di elementi propri del dialetto collochi il romanzo di Wanda Marasco all’interno dell’ampio novero di opere i cui autori «ponendosi al di fuori della vexatissima quaestio della verosimiglianza, [costruiscono] una particolare atmosfera linguistica nella quale il dialetto – imitato, evocato o ricreato – diventa la voce di un mondo a parte, quello del racconto»13. Non si tratta, infatti, di un’opera scritta interamente in dialetto o in italiano, quanto piuttosto di un’opera scritta in un italiano piuttosto ricco di regionalismi e dialettalismi, i quali spesso tendono anche – in particolare all’interno delle sequenze descrittivo-narrative – a sostituire i vocaboli italiani, dando vita ad un impasto linguistico peculiare e ad un andamento del discorso particolarmente fluido. Con questa scelta, l’autrice cerca di avvicinarsi quanto più possibile sulla pagina scritta al suo stesso parlato spontaneo, al proprio idioletto.
Le scelte linguistiche legate al dialetto non vanno nella direzione di una ricostruzione storica accurata né nella direzione di una rappresentazione realistico-grottesca dei personaggi: ciò verso cui si tende è il raggiungimento di una inequivocabile fedeltà nei confronti del proprio modo di parlare. Tutti i personaggi – in primo luogo Rosa e Vincenzina – si esprimono prettamente in dialetto quando entrano in scena e si relazionano ad altri personaggi, primari o secondari che siano. Questo tipo di soluzione, che consiste nell’inserire elementi dialettali o intere strutture frasali in dialetto all’interno degli scambi dialogici, ha come finalità il raggiungimento di una mimesi del parlato spontaneo e naturale che caratterizza lo spazio urbano napoletano. L’opera mostra, infatti, una componente dialettale fortemente espressiva che risponde all’esigenza di rappresentare un’ambientazione di per sé strettamente legata al codice dialettale:

[La] critica letteraria […] ha risaltato specialmente la forza espressiva e l’uso del linguaggio ambivalente, che si coniuga alla perfezione tra una squisita narrazione e l’uso del dialetto napoletano. Il linguaggio allusivo con cui si racconta la storia trasporta il lettore verso una società arcaica, violenta e con evidenti segni di povertà14.

Tanto il mondo rurale, periferico, esterno alla città, tanto il mondo urbano, che si estende al di sotto della collina di Capodimonte e fino al mare, hanno nel romanzo un solo codice linguistico di riferimento, quello dialettale, strettamente connesso ad un contesto sociale umile, caratterizzato da un alto tasso di povertà diffusa e da un altrettanto alto tasso di analfabetismo. I bambini, così come gli anziani, comunicano tra di loro usando il codice dialettale, marcatamente popolare, il quale ribolle nei vicoli attraversati costantemente dai personaggi.
La narrazione, che prosegue attraverso brevi capitoli scritti in italiano, viene costantemente spezzata da elementi isolati o intere sequenze dialettali. Tale scelta appare particolarmente funzionale, in quanto rende decisamente più immediata la comunicazione con il lettore: attraverso l’uso del dialetto e dell’italiano all’interno delle sequenze di discorso diretto e all’interno delle sequenze narrative «va ad aprirsi una tensione continua fra l’alto e il basso dei due registri; fra poesia e misura da una parte e feroce realismo dall’altra»15. La mescolanza dei due codici linguistici – l’italiano da un lato, il dialetto dall’altro – permette all’autrice di ottenere una lingua doppia, plurivoca, in grado di muoversi a seconda della necessità verso l’alto o verso il basso, in un continuo tentativo di ricreare in maniera mimetica gli usi linguistici quotidiani della città, dei quali l’autrice è pienamente consapevole: per Chiara De Caprio «l’efficacia della soluzione proposta […] trova il suo fondamento nella consapevolezza della inquieta relazione che linguaggio e narrazione intrattengono con la realtà»16. Partendo dal basso, infatti, dalla miseria del “sottosuolo” napoletano, Wanda Marasco crea un impasto linguistico estremamente fertile, che ha come suo punto di partenza un dialetto materico. All’interno de La compagnia delle anime finte, infatti, l’inserto dialettale non ha valore didascalico né caratterizzante: non viene usato il dialetto per fare esplicito riferimento alla cultura tradizionale, così come non viene usato per la caratterizzazione tendente al grottesco di alcuni specifici personaggi. All’interno del romanzo, l’elemento dialettale viene usato per avvicinarsi quanto più possibile alla realtà che fa da sfondo al romanzo, la quale avvolge i personaggi e gli avvenimenti che compongono la storia. I protagonisti del romanzo, gli umiliati e gli offesi, abitanti dei quartieri più poveri, molto spesso per necessità consacrati al mondo del lavoro sin dalla giovane età e dunque privi di un’adeguata istruzione scolastica, usano il dialetto come codice primario per comunicare tra loro, ma anche per stabilire un rapporto diretto con il lettore – in particolar modo con il lettore dialettofono che conosce da un lato le dinamiche socio-economiche e culturali che caratterizzano lo sfondo del romanzo, dall’altro le dinamiche sociolinguistiche peculiari del capoluogo partenopeo.
La novità più significativa che porta il romanzo di Marasco ad allontanarsi leggermente dalle opere degli autori napoletani suoi contemporanei consiste nella mescolanza dei codici all’interno delle sequenze narrative e non solo all’interno di quelle dialogiche o monologiche, elemento che rende sicuramente più complesso il tentativo di trarre conclusioni sulle scelte linguistiche dell’autrice. Possiamo ipotizzare che l’inserimento di elementi dialettali anche all’interno della narrazione avvenga in risposta ad una spinta verso una narrazione di tipo drammatico: l’autrice rappresenta i personaggi del romanzo come attori teatrali, i quali si muovono su uno sfondo cittadino che svolge un ruolo estremamente importante e che necessita di essere ben caratterizzato quasi come un vero e proprio personaggio. Possiamo evidenziare, dunque, come «a governare le emergenze del napoletano nel tessuto narrativo è un meccanismo […] sottile, che si direbbe risponda a un ritmo interno, quasi a una pulsazione verbale [o] a un’esigenza di tipo scenico»17. Esattamente come accade anche all’interno del precedente Il genio dell’abbandono, il continuo dissolversi e sfumare dei due codici linguistici (il dialetto nell’italiano e l’italiano nel dialetto) appare modulato da necessità non sempre facilmente rilevabili, talvolta di tipo espressivo, talvolta di tipo mimetico, talvolta di tipo drammatico. Usi del dialetto relativi alle tipologie appena citate possono essere osservati all’interno delle numerose sequenze relative alla vita quotidiana, di cui presentiamo qui alcuni esempi18: «Iateve a cucca’, è notte» (p. 16), «Aggi’ a lava’ ‘e panne. Aggi’ a cucena’. Aggi’ a pava’ a bulletta d’ ’o gas» (p. 24), «Stai digiuna da tre giorni, devi mangiare, ti devi riposare. E che vuo’ fa?» (p. 159), «I servizielli, i panni e i conti da fare» (p. 114), «Quanno l’aggio ’mparato a cammena’; quanno l’aggio accattato ‘e scarpe nove; quanno l’aggio dato a magna’» (p. 174).
Uno spoglio dettagliato del lessico dialettale dell’opera ci permette di evidenziare una serie di elementi particolarmente interessanti. In primo luogo, possiamo segnalare alcuni lessemi dialettali relativi all’ambito zoologico: «zoccole» (‘topi’, p. 13), «cardilli» (‘cardellini’, p. 83); al campo semantico del cibo e della gastronomia: «petrusino» (‘prezzemolo’, p. 11), «pummarole» (‘pomodori’, p. 17), «patane» (‘patate’, p. 17), «cocozze» (‘zucche’, p. 60), «freselle» (‘friselle’, p. 60), «pizzella» (‘pizzetta’, p. 97), «pastarelle» (‘dolcetti’, p. 124), «cepolla» (‘cipolla’, p. 221), «ccafè» (‘caffè’, p. 190); all’ambito dell’urbanistica: «vascio» (‘basso, piccola abitazione posta al piano terra con accesso diretto sulla strada’, p. 10), «vanella» (‘vicolo stretto secondario’, p. 167), «basoli» (‘blocchi di roccia usato per la pavimentazione stradale’, p. 184), «saittelle» (‘feritoie poste ai lati delle strade per favorire il deflusso delle acque piovane’, p. 184), «purtune» (‘portoni’, p. 200); all’ambito dell’arredamento casalingo: «ritrattiello» (‘figurina’, p. 24), «fenestriello» (‘piccola finestra’, p. 52), «cummò» (‘mobile usato per conservare capi di vestiario’, p. 56), «cannela» (‘candela’, p. 56), «ssegge» (‘sedie’, p. 190), «curredo» (‘corredo matrimoniale’, p. 223), «secreté» (‘mobiletto usato per conservare oggetti pregiati’, p. 238); al campo semantico dell’abbigliamento: «reggipetto» (‘reggiseno’, p. 27), «cazette» (‘calze’, p. 65), «nocca» (‘fiocco’, p. 122), «vestitiello» (‘vestitino’, p. 132), «cravattelle» (‘cravattine’, p. 139), «mutandelle» (‘mutandine’, p. 145).
Tra le espressioni idiomatiche e i modi di dire con connotazione locale presenti all’interno dell’opera, inseriti sia all’interno delle sequenze narrative e sia all’interno degli scambi dialogici, troviamo: «vi siete messi appaura» (‘vi siete spaventati’, p. 24), «’a póvera è comme ’a morte, trase pe’ tutte ’e parte» (‘la polvere è come la morte, arriva ovunque’, p. 36), «’o muorto acciso» (‘il morto ammazzato’, p. 62), «te pozzano scumma’ ’e sanghe», (‘possano farti sanguinare’, p. 65), «aggio sgravate» (‘ho partorito’, p. 83), «tieni una faccia appesa» (‘hai un volto mesto’, p. 84), «facevano impressione» (‘causavano turbamento’, p. 89), «prendersi a mazzate» (‘malmenarsi’, p. 97), «fece il volo dell’angelo» (‘cadde da un’altezza considerevole’, p. 97), «porta male» (‘porta sfortuna’, p. 107), «[ha i] piedi a papera» (‘[ha i] piedi storti’, p. 139), «per sfregio» (‘come affronto’, p. 146), «fare la catena dell’angelo» (‘pregare’, p. 156), «ha fatto ’a faccia d’ ’a morte» (‘ha assunto un’espressione morente’, p.158), «fare ‘la vita’» (‘prostituirsi’, p. 188), «stavano in tralice» (‘stavano di traverso’, p. 209). Peculiarità dell’opera è la presenza di numerosi epiteti dialettali, i quali accompagnano i nomi dei personaggi e permettono talvolta di mettere in evidenza alcune loro caratteristiche fisiche o caratteriali o il ruolo che questi ricoprono all’interno del tessuto sociale del quartiere o della città: «Tetella ’o masculone» (p. 131), «Sisina la contrabbandiera» (p. 131), «Ciro, detto ’a scigna» (p. 139), «Angelo, ’o sórece» (p. 139), «Carmine Musca. Nel vico lo chiamavamo sfaccimma e sanguetta» (p. 143), «Pascale capa ’e vacca» (p. 199).

3. Per un’osservazione degli usi del dialetto nella produzione narrativa italiana contemporanea

L’analisi degli usi linguistici e delle scelte lessicali che caratterizzano i romanzi esaminati permette di avere un’idea – per quanto approssimativa – di quanto al giorno d’oggi sia estremamente ampio il ventaglio di motivazioni che spingono i romanzieri e narratori a introdurre inserti dialettali più o meno marcati all’interno delle proprie opere. Ciò appare immediatamente collegato alla peculiare diversificazione degli usi linguistici del territorio italiano, all’interno del quale si verificano costantemente fenomeni di alternanza e mescolanza tra italiano e dialetti: questa caratteristica – presente tanto nella realtà linguistica, tanto in ambito letterario – si pone lungo una linea di continuità con ciò che avviene nel XX secolo. La progressiva frammentazione degli usi linguistici specifici della narrativa contemporanea di per sé si configura come segno dell’altrettanto progressiva diffusione del plurilinguismo che si realizza tra il Novecento e gli anni Duemila. Tale elemento risulta centrale all’interno del contesto linguistico italiano tanto in prospettiva macroscopica quanto in prospettiva microscopica: è dunque naturale che presenti delle rilevanti ricadute anche all’interno dell’ambito letterario.
Ciò che tende a differenziare la situazione linguistica del nostro secolo e quella novecentesca (e di conseguenza anche le rispettive linee di tendenza legate all’uso di elementi linguistici diversificati all’interno dell’ambito letterario) è il fatto che si sia gradualmente diffusa, all’interno di un contesto già tendente al plurilinguismo, una rinnovata “fioritura” dei codici dialettali, che ha avuto proprio in ambito letterario terreno fertile. A partire dalla seconda metà del Novecento e ancora di più in epoca contemporanea si è verificato un effettivo processo di rivalutazione dei codici dialettali all’interno del parlato spontaneo (non come codice esclusivo quanto, piuttosto, come codice da alternare, a seconda della situazione comunicativa, alla lingua nazionale o alle varietà di italiano regionale e locale). In modo speculare, un processo di rivalutazione dei codici dialettali è stato veicolato, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, dai media (cinema, serialità, televisione, canzone)19: il fatto che il dialetto, dunque, abbia trovato più spazio non solo nella comunicazione spontanea ha significativamente influito anche sul suo statuto all’interno della produzione letteraria, sia poetica che narrativa.
Non possiamo però non notare come a cavallo tra XX e il XXI secolo siano stati i poeti a svolgere un ruolo fondamentale nel complesso processo di rivalutazione dei codici dialettali: la riscoperta dei dialetti e la tendenza al riuso e alla rifunzionalizzazione degli elementi dialettali all’interno della produzione poetica di epoca post-unitaria ha certamente influenzato in maniera evidente l’ambito della narrativa, nonostante le significative differenze che sussistono tra i due micro-universi. Ciò che qui è necessario evidenziare è il fatto che anche nel caso della narrativa è effettivamente possibile parlare di neo-dialettalità, così come accade per la poesia. Sono soprattutto i nuovi spazi aperti dalla poesia dialettale – così come quelli aperti dagli altri media – a fornire alla narrativa un ampio bacino di elementi linguistici (allo stesso tempo innovativi e tradizionali) a cui attingere20. Agli occhi degli studiosi di dialettologia la poesia dialettale contemporanea risulta effettivamente una fonte preziosa. Anche la narrativa – seppur con i suoi limiti – potrebbe risultare altrettanto utile. Agli occhi degli studiosi interessati da un lato al rapporto che intercorre tra dinamiche linguistiche e media e dall’altro ai rapporti di interferenza tra codici dialettali e italiano potrebbe risultare stimolante osservare accuratamente la produzione letteraria di autori contemporanei per notare quali relazioni questa può intrattenere con il complesso dei fenomeni sociali, culturali e linguistici che hanno contribuito e contribuiscono tuttora ad un costante processo di rinnovamento del repertorio linguistico italiano. È evidente che la produzione narrativa venga spesso esclusa dal novero delle fonti utili per indagini di ambito puramente dialettologico, in quanto nel concreto può apparire poco vicina alla realtà linguistica: il fatto che la letteratura appaia spesso come necessariamente influenzata da scelte narrative, stilistiche ed editoriali, porta spesso gli studiosi a tralasciare il ruolo di tale produzione, con una notevole preferenza per la produzione poetica e per i testi pratici. Bisogna però ricordare che le scelte lessicali dei narratori e delle narratrici sono sempre motivate da specifiche esigenze linguistiche, le quali possono permetterci di comprendere in maniera accurata anche in che modo gli stessi intellettuali contemporanei “percepiscono” il dialetto, l’italiano e lo stesso plurilinguismo che rende estremamente peculiare il repertorio linguistico dell’Italia contemporanea. Gli elementi lessicali e le espressioni idiomatiche provenienti dall’universo linguistico dialettale, le dichiarazioni esplicite degli autori e quelle implicite espresse attraverso le voci dei propri personaggi, vengono ponderati sempre con estrema accuratezza con il fine di raggiungere obiettivi che possono variare in base ad esigenze narrative e linguistiche e, soprattutto, in base al modo in cui di volta in volta il dialetto viene da un punto di vista ideologico recepito e interpretato e solo successivamente rielaborato. Dal punto di vista puramente linguistico, la particolarità significativa che accomuna le opere che abbiamo osservato consiste in un dato: si sceglie di utilizzare il dialetto (nel nostro caso, il dialetto napoletano), un dialetto che appare però costantemente rinnovato, nuovo, diverso da quello degli altri, in quanto ad essere diverse sono prima di tutto le concezioni pregresse, le motivazioni che spingono all’uso, le rielaborazioni individuali, le finalità che si vogliono raggiungere. È per tale motivo, dunque, che in questa sede si auspica che gli elementi presentati, per propria natura estremamente variabili, possano suscitare interesse, in quanto l’insieme dei fenomeni osservati si ricollega direttamente ad una realtà linguistica magmatica, che si evolve costantemente, riversando i propri elementi innovativi anche all’interno dell’ambito letterario.


  1. A. Cilento, “Il Premio Strega è un gioco tra editori…”, in «Fanpage.it», 17 luglio 2014, <https://www.youtube.com/watch?v=Qqn9szL4zDM>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  2. Cfr. N. De Blasi, Storia linguistica di Napoli, Roma, Carocci, 2012.

  3. L. Matt, La varietà stilistica della narrativa italiana di oggi (al di là dei luoghi comuni), in «Malacoda», 2015, p. 2.

  4. Cfr. G. Rosa, Lisario, il piacere della sbrigliatezza, in Tirature ’15. Autori, editori, pubblico. Gli intellettuali che fanno opinione, a cura di V. Spinazzola, Milano, Il Saggiatore, 2015, pp. 80-83.

  5. G. Antonelli, Il dialetto non è più un delitto, in «Treccani», 12 novembre 2005, <https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/italiano_narrativa/antonelli.html>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  6. Id., Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia, Lecce, Manni, 2006, p. 105.

  7. Ibidem.

  8. I successivi riferimenti sono tratti da: A. Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne, Milano, Mondadori, 2014. D’ora in poi in forma abbreviata nel testo con la sola indicazione dei numeri di pagina.

  9. M. Barenghi, Il genio dell’abbandono. Wanda Marasco, in «Doppiozero», 13 maggio 2015, <https://www.doppiozero.com/il-genio-dellabbandono-wanda-marasco>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  10. M. Reyes Ferrer, Napoli al femminile. Analisi delle donne ne La compagnia delle anime finte, in «Revista De Italianística», XXXIX, 2019, p. 55.

  11. E. L. Mascolino, “La compagnia delle anime finte” di Wanda Marasco, finalista Strega 2017: la parola all’autrice, in «Il Rifugio dell’Ircocervo», 23 maggio 2017, <https://ilrifugiodellircocervo.com/2017/05/23/la-compagnia-delle-anime-finte-di-wanda-marasco-finalista-strega-2017-la-parola-allautrice>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  12. G. Antonelli, Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia, cit., p. 102.

  13. Ibidem.

  14. M. Reyes Ferrer, Napoli al femminile. Analisi delle donne ne La compagnia delle anime finte, cit., p. 56.

  15. C. Mammarella, Ritratto #4 – La compagnia delle anime finte di Wanda Marasco, in «Lacaduta», 4 luglio 2017, <https://lacaduta.it/ritratto-4-la-compagnia-delle-anime-finte-di-wanda-marasco-b5f32471ceca>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  16. C. De Caprio, Spazi, suoni e lingue del romanzo “di Napoli”, in Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana, a cura di L. Rossomando, Napoli, Napoli Monitor, 2016, p. 508.

  17. M. Mianiti, Wanda Marasco, la scrittura che canta, in «il Manifesto», 7 gennaio 2018, <https://ilmanifesto.it/wanda-marasco-la-scrittura-che-canta>, ultima consultazione 12 maggio 2023.

  18. I successivi riferimenti sono tratti da: W. Marasco, La compagnia delle anime finte, Vicenza, Neri Pozza, 2017. D’ora in poi in forma abbreviata nel testo con la sola indicazione dei numeri di pagina.

  19. Cfr. N. De Blasi, Il dialetto nell’Italia unita. Storia, fortune e luoghi comuni, Roma, Carocci, 2019, pp. 97-103.

  20. Cfr. N. De Blasi, F. Montuori, Una lingua gentile. Storia e grafia del napoletano, Napoli, Cronopio, 2020, p. 71.


The essay presents an analysis of the uses of dialect in Lisario o il piacere infinito delle donne (2014) by Antonella Cilento and La compagnia delle anime finte (2017) by Wanda Marasco, paying specific attention to the lexical and phraseological component, especially in relation to the heterocosms respectively staged by the authors, therefore to the spatio-temporal setting that characterizes the two novels (on the one hand the Baroque Naples of the seventeenth century, on the other the popular Naples of the Second post-war). The analysis of linguistic uses and lexical choices has allowed us to observe how extremely wide is the range of purposes that push narrators to introduce more or less marked dialectal inserts in the contemporary novel: this appears to be closely connected not only to the peculiar diversification of the linguistic uses typical of the Italian territory – in which phenomena of alternation and mixing between Italian (and its varieties) and dialects (and their varieties) constantly occur –, but above all to the process of re-evaluation and promotion of dialectal codes conveyed in recent times by new media and literature.