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La tristezza del vincitore: metafore della Shoah nel Mendicante di Gerusalemme di Elie Wiesel

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Il mendicante di Gerusalemme, romanzo di Elie Wiesel pubblicato nel 1968, inizia nel segno della contraddizione: «La guerra è finita e, nella confusione, cerco la gioia ma non la trovo»1, afferma il narratore e protagonista di nome David, nelle prime righe del testo. «Incontro – aggiunge – soltanto persone dal volto serio, lo sguardo ferito. Sconvolte dall’esperienza che hanno appena vissuto, pare che non riescano a coglierne le implicazioni»2. La guerra a cui si riferisce è quella detta dei sei giorni, svoltasi tra il 5 e il 10 giugno del 1967 e conclusasi con la vittoria israeliana, nonostante la superiorità numerica dei nemici. È il conflitto che ha consentito a Israele di strappare la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all’Egitto, Gerusalemme est e la Cisgiordania alla Giordania, le alture del Golan alla Siria. È anche la guerra che, secondo Enzo Traverso, ha ripreso e portato alle estreme conseguenze l’anamnesi avviata dal processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, all’inizio degli anni Sessanta: in tal senso, il conflitto del ’67 è stato percepito, soprattutto dagli ebrei della diaspora (e Wiesel è uno di questi), come una nuova minaccia di annientamento del popolo ebraico, mentre nell’opinione pubblica della sinistra si è accentuato un concetto di Israele come fenomeno neocoloniale3.
Di certo, per Elie Wiesel quella del ’67 non è stata una guerra come le altre, ma il protagonista de Il mendicante di Gerusalemme stenta a comprendere la portata, il significato dell’evento a cui pure ha preso parte come militare. Il «montare dell’angoscia e della collera prima dello scoppio, il rovesciamento dei ruoli: è successo tutto troppo in fretta»4, si legge sul taccuino che il narratore ha ripreso in mano a circa un anno di distanza dai fatti: l’ultima pagina del romanzo reca infatti l’indicazione «Gerusalemme 1967 – Christiansted 1968»5. Ora David si accinge a riannodare i fili della propria storia, a dare finalmente un ordine agli eventi che nei mesi precedenti ha registrato in maniera assolutamente immediata, senza che ci fosse il tempo di «riprendere il fiato»6.
Il rovesciamento dei ruoli è il dato di partenza, gravido di conseguenze: non soltanto lo stupore domina in queste righe («David ha vinto Golia e ora si chiede come ha fatto»)7, ma il conflitto e la contraddizione permeano ogni pagina del romanzo a partire dal breve prologo: qui la «gioia» si oppone alla «ferita» della guerra, i «vinti» di ieri risultano i «vincitori» di oggi e la «leggenda» dell’impresa appena compiuta dall’esercito israeliano si confonde ancora con la «Storia», che è segnata da diaspore, pogrom, persecuzioni, stermini. Che cosa significhi questa forma di confusione, è presto detto: in un capitolo che occupa pressoché il centro del romanzo, il protagonista e narratore rivive un episodio che lo lega personalmente alla storia della presenza ebraica nell’est Europa. Si rivede in un anonimo villaggio nella regione montuosa dei Carpazi, culla del chassidismo, dove ebrei e cristiani coabitano da secoli anche se, due volte l’anno, a Natale e a Pasqua, si scatena una caccia all’ebreo con insulti, umiliazioni e violenze. Immediatamente, da un secolo imprecisato dell’epoca moderna, il ricordo si fa più vivo e recente: siamo negli anni quaranta del Novecento e la comunità ebraica della cittadina viene arrestata, trasferita nella foresta e costretta a scavare le fosse comuni entro le quali saranno sepolti i corpi di uomini, donne e bambini innocenti, subito dopo la fucilazione a opera dell’esercito tedesco. Comprendiamo che il protagonista, David, ha vissuto quest’ultima esperienza in prima persona, salvandosi miracolosamente, e il suo racconto evidenzia alcuni motivi che sono cari alla letteratura di testimonianza di Elie Wiesel e ai personaggi di ex deportati che ricorrono nei suoi romanzi e racconti: la pretesa dei tedeschi, espressa attraverso le parole dei loro ufficiali, di ergersi a divinità, con potere di vita o di morte nei confronti dei prigionieri8; l’indifferenza del resto della cittadinanza (gli europei orientali, spettatori o complici delle violenze); la «collera»9 che anima i religiosi più inquieti, tra gli ebrei, nei confronti di un «Dio della verità, non della gioia»10, che avrebbe lasciato accadere la più grave e impensabile tragedia.
Ancora nel prologo, il narratore ci informa del fatto che le righe riportate dal taccuino risalgono al ’67, non appena egli è arrivato in Palestina per partecipare alla sepoltura dei soldati morti in battaglia, ma la decisione di recarsi in Israele era precedente: si temeva la «catastrofe» in occasione dello scoppio della guerra dei sei giorni11. Gli ebrei si erano ritrovati infatti soli «come una volta, in Europa, al tempo dell’oscurità»12. La metafora del buio e della notte dava già il titolo alla più famosa opera di testimonianza, La notte, scritta da Wiesel originariamente in yiddish nel ’54, pubblicata nel ’56 in Argentina, poi rimaneggiata e definitivamente data alle stampe a Parigi, in lingua francese, nel ’5813. La notte è lo spazio in cui risuona il silenzio di Dio, dove si sospende la parola e viene meno l’ispirazione dell’agire etico dell’uomo, ci spiegano i più attenti interpreti del pensiero di Elie Wiesel14.
La metafora che fa riferimento alla Shoah si accompagna, nelle prime pagine de Il mendicante di Gerusalemme, a un esame della situazione di isolamento degli ebrei nel contesto politico internazionale che riecheggia espressioni già utilizzate in racconti e riflessioni precedenti, in primis ne L’ebreo errante, la raccolta narrativa pubblicata due anni prima, nel 196615, poco dopo la fine del processo Eichmann in Israele. Anche in scritti successivi, Wiesel si sarebbe soffermato sulla posizione ambigua del Vaticano, sulla miopia delle comunità ebraiche d’oltreoceano, sul silenzio e sull’indifferenza dei popoli europei rispetto alla tragedia della Shoah16. La novità de Il mendicante di Gerusalemme è nella voce narrante che considera il proposito di un altro soggetto – prima erano i tedeschi, ora sono evidentemente gli arabi – di distruggere gli ebrei fidando su un atteggiamento diffuso di ipocrisia e di sentimentalismo: «Che gli ebrei si facessero pure massacrare; li avrebbero pianti dopo»17, si legge nel testo. La guerra, conclusasi con una vittoria inaspettata di Israele, è stata invece come «la rivolta dei sopravvissuti ebrei di Varsavia»18, afferma il protagonista del romanzo, David. Prevale un senso di sospensione del tempo che annulla ogni possibile appiattimento sul passato e incrina anche l’ipotesi di un puro e semplice rovesciamento di ruoli e di destino: riferendo gli eventi e le sensazioni registrate sul taccuino di guerra, il protagonista sostiene che «non si sapeva più che giorno della settimana fosse, che mese, che secolo», in quanto ci si sentiva riproiettati nelle vicende bibliche oppure sbalzati in avanti, in un futuro «messianico»19.
La parentela della guerra dei sei giorni con la Shoah deriva, allora, non tanto dalle metafore ricorrenti e dalle similitudini più esplicite, quanto da alcuni ulteriori aspetti che si precisano nelle pagine centrali del romanzo: si tratta del carattere mitopoietico e sacrale che la memoria riveste, a partire dalla vicenda di persecuzione e di sterminio degli ebrei d’Europa ad opera dei nazisti, e del ritorno del rimosso sotto forma di fantasmi del passato, i quali affollano la mente dei sopravvissuti in questo romanzo come in altri testi narrativi, sia lunghi che brevi, redatti tra gli anni Sessanta e Settanta da Elie Wiesel20. David, ne Il mendicante di Gerusalemme, afferma infatti che

per la sua stretta parentela con l’Olocausto, questo evento ha avuto una dimensione morale e forse anche mistica. L’ho capito il giorno in cui, trovandomi nella città vecchia di Gerusalemme, ho visto migliaia di uomini e donne sfilare davanti al Muro, unica vestigia del Tempio. Sono rimasto colpito dallo strano raccoglimento che li animava. Improvvisamente ho creduto di riconoscerli, i vivi mescolati ai morti, giunti dai quattro angoli della diaspora, fuoriusciti da tutti i cimiteri, da tutti i ricordi. Alcuni parevano provenire dalla mia infanzia, altri dalla mia immaginazione. I pazzi muti e i mendicanti sognatori, i maestri e i loro discepoli, i cantori e i loro alleati, i giusti e i loro nemici, gli ubriachi e i cantastorie, i bambini morti e immortali, sì, tutti i personaggi di tutti i miei libri mi avevano seguito per fare atto di presenza e testimoniare al mio posto, attraverso di me!21

I vivi sono mescolati ai morti e ora, in conclusione del breve prologo, il protagonista si identifica con lo scrittore: oltre alla condizione di sopravvivenza, ne è una spia il riferimento ai libri scritti, alla diaspora vissuta e ai cimiteri visitati. Elie Wiesel si è sempre considerato un apolide, inoltre i cimiteri sono i luoghi che gli ex deportati protagonisti dei suoi romanzi e racconti attraversano quando tornano nei propri luoghi d’origine, alla ricerca della comunità ebraica di appartenenza. Era accaduto con Michael, il personaggio principale de La città della fortuna (1962), ma è l’io narrato dello stesso scrittore che racconta il ritorno a Sighet, in Transilvania, nelle memorie pubblicate alla metà degli anni ’9022. Colpisce poi il riferimento all’infanzia, popolata dalle figure di maestri e discepoli, pazzi e vagabondi, nel brano tratto da Il mendicante di Gerusalemme come nella testimonianza de La notte e nei racconti de L’ebreo errante. I pazzi e i mendicanti, figure centrali del romanzo del ’68, incarnano proprio gli aspetti più problematici legati alla memoria della Shoah nel nuovo contesto israeliano e restano riferimenti ricorrenti anche a distanza di trent’anni, nei due volumi di memorie pubblicati più recentemente da Wiesel, dove il racconto del matrimonio dello scrittore, che funge da spartiacque tra le due sezioni dell’opera, registra il riaffacciarsi di fantasmi della coscienza23. In tal senso, i pazzi e i mendicanti, i maestri e gli studenti, i cantori e gli ubriachi del villaggio d’origine dello scrittore, insomma gli stessi personaggi richiamati dalla mente del narratore nel prologo de Il mendicante di Gerusalemme, lungi dall’essere testimoni autonomi, sono un prezioso strumento nelle sue mani e sono delegati a rappresentare istanze della sua stessa coscienza.
Se il prologo dell’opera letteraria condensa i temi e le questioni centrali del libro, sovrapponendo la figura dello scrittore a quella del narratore, fin dal capitolo successivo è il mendicante protagonista a prendere la parola e a caratterizzarsi in modo specifico. David dichiara di avere una memoria «malata», che «assorbe e fa proprie le immagini e le parole senza filtrarle […]. Ricorda gli avvenimenti senza poterli datare. Sa che la guerra è finita, ma non sa dire quale»24. È fuori dal tempo, non dalla storia: anzi, l’immagine che ha nella mente è quella dei ricorrenti attentati alle comunità ebraiche. Si tratta di «crociati, cosacchi, contadini fanatici, assetati di vendetta e di sangue»25. Rivivono nella sua mente tutti i pogrom e le persecuzioni del passato, ma «la memoria – aggiunge David – è più forte di loro»26. Egli si circonda di matti e di vagabondi d’ogni sorta: ognuno reagisce alla memoria del male in modo diverso ed esprime la propria verità. Intanto, il narratore dice di attendere Katriel, l’amico disperso nella guerra del ’67: è lui il fantasma, l’uomo il cui segreto è al centro del libro. In senso paradigmatico, però, Katriel è «l’uomo che contiene tutti gli uomini»27. Non hanno la medesima pretesa universalistica gli altri conoscenti di David, ovvero i pazzi e i mendicanti che si trattengono con lui nella piazza del sagrato del Tempio, quando i turisti vanno via, alla sera. Gerusalemme, in questo caso, è il luogo dell’infanzia, del mistero, della storia e della leggenda, la città del futuro messianico e della memoria incrollabile:

Per me, è anche un piccolo borgo sperduto da qualche parte in Transilvania, in fondo ai Carpazi, dove un bambino ebreo, innamorato del mistero quanto della verità, impara il Talmud che lo affascina per la ricchezza, la malinconia del suo universo di leggenda28.

Tra i vagabondi che interagiscono con il protagonista, la figura più significativa è quella di un ex deportato, Anshel, che di sera compra oggetti e souvenir dai ragazzini palestinesi che passano davanti al Muro del Pianto. Anshel sa «soltanto una cosa: che anche lui ha avuto fame e vergogna. Adesso non è più lui a soffrire. E questo non se lo perdona ancora»29, si legge nel testo. Il senso di colpa è indistricabile dalla condizione di superstite dei lager e della Shoah: la guerra evoca ad Anshel il volto di un moribondo tornato bambino30. Accade lo stesso al protagonista, che ha sempre davanti agli occhi ricordi e immagini del passato: se i sopravvissuti ritornano bambini e si perdono nella nostalgia della Gerusalemme dell’infanzia (il borgo sperduto tra i Carpazi, appunto), allora i morti del più recente conflitto combattuto dallo Stato di Israele richiamano i sommersi dei campi nazisti, che non hanno più un volto e riaffiorano come fantasmi, a stimolare il senso di colpa dei superstiti, a inquietare un intero popolo proteso verso il futuro. È infatti «arrabbiato»31 Anshel, è in collera anche se non lo riconosce. David, il protagonista, se ne accorge e lo stuzzica, lo provoca finché l’altro esplode: essere vincitori della guerra del ’67 equivale ad avere le tasche piene di «volti»32, dice Anshel.
Soffermiamoci sulla rabbia: essa anima tanto David quanto Anshel, entrambi superstiti della Shoah e del conflitto del ’67. Il loro sentimento deriva dalla paura: di parlare, di tacere, di amare. Sradicato, l’ebreo apolide si è sentito ovunque indesiderato: ha fatto fatica ad avere permessi di soggiorno, di lavoro, di viaggio. Si è sentito respinto anche nella Palestina del dopoguerra, così come nell’Europa dei vincitori: «eravamo la prova vivente della loro colpevolezza»33, osserva il narratore. La ricerca della comunità di appartenenza è stata per David un’ulteriore delusione: restavano soltanto tre sopravvissuti della sua vecchia comunità nell’Europa dell’est, tutti in manicomio. Uno di questi, con il quale ha avuto un confronto, custodisce una visione: «la mia città continua a esistere con i suoi ebrei e i suoi miti, i suoi canti e le sue feste, ma senza di me, fuori da me»34, ha detto a David. In definitiva, quella del matto del villaggio è una menzogna:

In questo momento, il sole tramonta sulla città e, nell’oratorio del Talmud Torah, di fronte al mercatino, i fedeli attendono la funzione di Maariv ed evocano con devozione i poteri miracolosi dei rispettivi rabbini. Nella via degli ebrei, vicino alla grande piazza, i facchini depositano i loro fardelli e, voltati verso il Muro, recitano l’Amidah perché Mendel il rosso possa dire il Kaddish35.

La sua allucinazione è una difesa dalla verità che il matto stesso ha osservato: in città, il vecchio quartiere commerciale degli ebrei ha un nome nuovo, degli sconosciuti ne percorrono le vie, ne abitano le case. Così David ha ricavato dall’incontro con il matto del villaggio la consapevolezza secondo la quale tanto la verità quanto la menzogna conducono alla pazzia. Il matto del villaggio è in manicomio per le sue visioni folli, ma nel momento in cui al solo David ha detto la verità circa la scomparsa della comunità ebraica, il senso di colpa lo ha risospinto verso il fondo della disperazione: «Arrivai a chiedermi – sono le parole del matto – se non fossi io la causa di quello scandalo, arrivai a vedermi con i tratti dell’angelo della morte che faceva il vuoto intorno a sé»36. Ecco perché David si è sentito minacciato dalle parole del matto: perché si è riconosciuto anch’egli nel senso di colpa di ogni sopravvissuto, del suo interlocutore come degli ex deportati, ora mendicanti, che incontra a Gerusalemme.
L’episodio del confronto con il matto del villaggio contiene un altro motivo ricorrente tra i più significativi della produzione letteraria di Wiesel, un elemento che richiama direttamente la memoria della Shoah, in particolare il trauma di cui quell’esperienza è portatrice. Oltre che dal senso di colpa, il matto è animato dalla convinzione di non essere creduto. Si reincarna così in lui la figura suggestiva e misteriosa di Moshé il pazzo, descritta ne La notte: Moshé è il maestro che a Sighet ha introdotto il giovanissimo Wiesel al misticismo ebraico, ma poi è stato arrestato, portato fuori città ed è scampato miracolosamente a una fucilazione di massa. Riaccolto nella comunità, non è stato creduto, ha perso la gioia che lo animava e non è riuscito più a comunicare con nessuno. I suoi concittadini non hanno voluto più ascoltarlo37. Nel racconto della fucilazione di massa contenuto ne Il mendicante di Gerusalemme, però, si osserva una differenza importante rispetto alla storia di Moshé inclusa nella prima testimonianza: la presenza di un sopravvissuto contro il quale si accanisce inutilmente l’ufficiale tedesco che guida il plotone di fucilieri, per poi lasciare che quell’unico superstite della comunità ebraica si distenda nella fossa comune, insieme ai cadaveri dei quali vorrebbe far parte. Suo malgrado, il giovane sopravvissuto non potrà condividere il destino delle vittime: la sua maledizione sarà proprio quella di custodire la verità, di gridare allo scandalo, alla rivolta, e di non essere creduto38. Anche se il testo non lo rivela esplicitamente, comprendiamo che il superstite è lo stesso David, protagonista del romanzo.
Se Moshé ne La notte e David ne Il mendicante di Gerusalemme hanno perso entrambi la facoltà di ridere e di far ridere gli altri, c’è un altro Moshe, nel romanzo del ‘68, che celebra il valore e le prerogative del riso:

Da qualche parte quaggiù, diceva il rabbino Nachman di Breslov, esiste una città che racchiude tutte le altre città del mondo. E in questa città c’è una strada che contiene tutte le altre strade della città. E in questa via c’è una casa che domina tutte le altre case della via. E questa casa ha una stanza che accoglie tutte le stanze della casa. E in questa stanza c’è un uomo in cui si riconoscono tutti gli uomini. E quest’uomo ride. Non fa altro. Ride a crepapelle. Penso a Katriel: sarà lui, quell’uomo? Non l’ho mai sentito ridere, ma questo non significa niente. Il riso si impara, si acquisisce. Moshe, Moshe l’ubriacone, il pazzo dalla voce tonante, ve lo confermerà39.

Reduce di guerra, Moshe è un altro frequentatore del sagrato del Tempio, a Gerusalemme. Anch’egli è un abile narratore, un affabulatore: sa far ridere e piangere gli ascoltatori delle sue storie. È però soltanto il riso, secondo lui, a compiere miracoli: «Anche gli angeli dovrebbero imparare a ridere»40, osserva Moshe l’ubriacone. L’angelo della morte non fa eccezione in tal senso: soltanto nella risata, aggiunge Moshe poco dopo, «la debolezza e il coraggio si equivalgono e si annullano»41. Questa considerazione nomina l’unica alternativa vitale e feconda, rispetto alla disperazione che accomuna tutti i sopravvissuti del romanzo. La posizione dei superstiti della Shoah è ben sintetizzata dalla storia che narra un altro mendicante, tra quelli che affollano con la loro chiassosa presenza il sagrato del Muro del Pianto. Si chiama Dan e narra la leggenda di un regno ebraico fondato dalle dieci tribù perdute di Israele, in un luogo inaccessibile a chiunque: un regno letteralmente fuori dalla storia. È l’ipotesi di una comunità di ebrei che non abbiano mai vissuto nella diaspora, tra persecuzioni e stermini: «Come se non ci fossero mai state le Crociate, l’Inquisizione, i pogrom. Come se in Europa non ci fosse mai stato l’Olocausto»42. Da questo regno immaginario, Dan è tornato per soccorrere i fratelli israeliani; lo stesso protagonista, David, per quanto attirato dall’ipotesi di visitarlo, non saprebbe viverci. Sono consapevoli entrambi che «all’Olocausto di ieri seguirà quello di domani, e sarà totale», che «la conoscenza e il dolore vanno di pari passo» e che «in passato l’uomo poteva sfuggire al pericolo, a ciò che era disumano, cambiando città, provincia, continente», mentre oggi «non c’è più un posto dove andare, dove nascondersi»43. Per la medesima ragione, nella storia narrata da un altro mendicante di nome Zalmen, il Messia non ha saputo aspettare il compiersi del volere di Dio e ha raggiunto il popolo di Israele in anticipo. Quando il Signore lo rimprovera, il Messia risponde: «Avevo paura»44. Paura per la sorte degli ebrei: «Erano sei milioni»45.
Il riso aiuta a esorcizzare la paura, la disperazione: ne parla non a caso Itzik, l’unico vagabondo che ha ricordi recentissimi, legati più alla guerra del ’67 che alla Shoah, ma celebra il riso anche Velvel, per il quale «nessuna comunità può sopravvivere senza i suoi ubriaconi»46, capaci di coraggio e di insolenza anche di fronte ai potenti e in grado di vincere dispute teologiche perché mai si sentono limitati dalle inibizioni imposte alla conoscenza. Un’altra soluzione è quella della follia: la propone il personaggio di Gad, militare israeliano e vecchio amico del protagonista. Un’analessi illumina il confronto di alcune settimane prima tra David e Gad. È significativo che il ricordo si apra con una consapevolezza nuova e più chiara da parte del protagonista: «il male che era dentro di me alla fine avrebbe avuto la meglio»47. È la conferma del fatto che il male precede l’esperienza della guerra del ’67: è il trauma vissuto durante la Shoah che non dà scampo al sopravvissuto. L’esercito israeliano non ha consentito inizialmente a David di combattere al fronte e ciò ha deluso il protagonista, il quale da anni corre «dietro alla morte»48, cercandola come una liberazione, un sollievo. La guerra, lungi dal salvarlo, ha fornito un’occasione per far svanire, all’alba, le visioni e le paure notturne, ma non ha risolto le tensioni, anzi le ha aggravate trasformando l’ex deportato in un «fantasma»49 di sé stesso.
Come i sommersi dei lager sono fantasmi per David e per gli altri mendicanti di cui questi si circonda, così il sopravvissuto alla Shoah che si arruola nella guerra del ’67 è uno spettro per i compagni di lotta e per il suo stesso popolo. Nonostante il trasferimento a Gerusalemme nel dopoguerra, infatti, al protagonista è apparso chiaro che aspirare alla felicità significasse tradire la memoria del mondo da cui proveniva, l’universo della diaspora e dello sterminio50. Ecco perché ha partecipato alla guerra:

Ero convinto che, costretto a scegliere tra due tipi di morte, e non tra il vivere e il morire, saremmo andati incontro a una replica del suicidio collettivo della fortezza di Masada, della rivolta disperata del ghetto di Varsavia: noi, che avevamo insegnato al mondo l’arte, la necessità di sopravvivere, venivamo traditi dal mondo una volta di più. E io vietavo a me stesso di subire quell’evento da spettatore o da testimone51.

Quella dello spettatore è una funzione che la narrativa di Wiesel talvolta contempla per arricchire il campo di forze attorno al quale è incentrata la recita del male: la messinscena ruota principalmente intorno ai ruoli simmetrici del carnefice e della vittima, ma chiama spesso anche gli spettatori indifferenti o inerti a dar conto della loro posizione52. Impossibile, comunque, per David e per Gad essere testimoni non partecipi, semplici spettatori. Gad ha voluto fare anche di più: prima di cadere in battaglia, ha sostenuto che si potesse «scacciare la morte, vincere la guerra invocando la follia»53. La fine di questo personaggio è legata a un ricordo del protagonista che smentisce immediatamente l’opzione per la follia come risposta all’inquietudine del passato e della memoria: David ricorda la madre che lo accudiva tanti anni prima, mentre questi era ammalato di polmonite. L’episodio risale alla giovinezza di David ed è legato alla consapevolezza dei valori che la famiglia ha trasmesso al protagonista. Tra questi, innanzitutto la fiducia nell’umanità, a causa della quale la famiglia rinunciò a trasferirsi in Palestina di fronte all’insorgere delle prime leggi razziali e all’aggravarsi delle forme di persecuzione antiebraica in Europa. Una fiducia mal posta, tradita. La madre aveva detto a David: «Voglio che ami Dio attraverso gli uomini. Non voglio che Lo tema attraverso gli uomini»54. La delusione che ne è seguita sfocia nella disperazione e anche in un legame strettissimo del protagonista con i morti, con le vittime della Shoah, tra le quali sono da annoverare gli stessi genitori di David.
Agli scomparsi, ai sommersi sono legati indissolubilmente tutti i mendicanti che circondano David. In un episodio decisivo del romanzo, la moglie del disperso Katriel fa il suo ingresso sul sagrato del Tempio, in piena notte, e la voce narrante definisce «spettri»55 gli altri vagabondi: ognuno di loro vede nella donna ciò che egli stesso chiede, quello che cerca ardentemente da tempo. Lo sguardo del narratore, più lucido, mette in risalto innanzitutto il valore della domanda, di cui la donna gli pare una vera e propria incarnazione. Quello dell’interrogazione senza risposta è un altro motivo ricorrente della letteratura di Wiesel ed è, anche e soprattutto ne Il mendicante di Gerusalemme, una metafora dell’esperienza della Shoah. Si legge nel romanzo del ’68: «Possiamo anche fare a meno delle soluzioni. Contano solo le domande; siamo liberi di condividerle o di rifiutarle. Ognuna di esse contiene non una risposta, ma un segreto»56. Molti anni prima, il rabbino della città natale di David, in Europa, lo aveva interrogato e gli aveva detto che un bravo ebreo è «uno che, pensando a se stesso, si dice: non lo so»57. Anche la preghiera ha il valore di un’interrogazione, a ben guardare: ne era certo il predicatore ambulante conosciuto dal protagonista ancora durante la giovinezza, nel villaggio natale: «Come ti spieghi, allora, che di tutte le preghiere ripetute dai santi e dai giusti nel corso dei secoli, non ne sia stata esaudita nessuna?»58, gli aveva chiesto l’uomo. Aveva aggiunto, poi: «Chi ti dice che si debba pregare per ottenere un favore? Forse bisogna pregare per aprire una porta e restare sulla soglia»59.
Il predicatore ambulante dei Carpazi ha insegnato a David che ogni cuore spezzato può e deve riflettere le proprie rovine, che non si sa che cosa nasconda la sofferenza altrui e per questo essa va rispettata; gli ha predetto che un giorno anche lui, David, avrebbe dovuto «raccontare» e che gli ebrei sono un popolo di sacerdoti che non dovrebbe vivere nell’attesa del Messia, ma cercarlo60. Alla luce di questi incontri e insegnamenti, quando ai mendicanti riuniti sul sagrato del Tempio appare Malka, la moglie di Katriel, soltanto a David è evidente che ella incarni un interrogativo, più che una risposta: «Una domanda, viva, nuda e crudele, le brilla negli occhi e io so che nessuno di noi è in grado di rispondere»61. È dopo questo passaggio che si polarizza il confronto con Katriel, ex insegnante e poi soldato dell’esercito israeliano, di cui David invidia la vulnerabilità, il desiderio di amare, di «esaltare tutto ciò che è umano in questo universo che non lo è»62. A differenza di quanto è accaduto ai sopravvissuti, la tragica perdita del figlio non ha avvicinato Katriel alla morte. «Non si lotta contro la morte se non creando la vita»63, sosteneva l’uomo. Eppure egli è un coacervo di contraddizioni. Quando David lo ha conosciuto in un battaglione dell’esercito israeliano, di Katriel risaltava l’intensità dello sguardo, «in cui si scontravano chiarore e tenebre»64, ma anche la ritrosia, il desiderio di essere quasi invisibile, «spaventato da sé stesso quanto dagli altri»65. Di questo personaggio, il narratore si sforza di assumere il complesso punto di vista: Katriel è un affabulatore, ma anche e soprattutto una figura dell’inquietudine e dell’interrogazione incessante, come sua moglie Malka. Raccontava infatti:

Piuttosto che sprecare il suo tempo in spiegazioni, mio padre mi consolava dicendo: ama ancora di più ciò che si sottrae alla tua comprensione, ne sarai ricompensato, il tuo amore ti verrà restituito. La ricompensa io la sto ancora aspettando, ma ciò non mi impedisce più di amare le storie66.

David riferisce di una discussione svoltasi un giorno nell’accampamento militare, durante la guerra del ’67. Un compagno di nome Yoav sosteneva non lo riguardasse più se l’umanità avesse una coscienza o meno: «Credo che non l’abbia mai avuta. Credo che gli ebrei perseguitati se la siano inventata spesso usandola come scudo e talvolta come scusa, per non battersi»67. Vi possiamo riconoscere l’accusa di passività, mossa nei confronti degli ex deportati e delle vittime della Shoah, che Wiesel (come Primo Levi e altri sopravvissuti, del resto) ha sentito pronunciare più volte, anche all’interno di contesti ebraici. Lo scrittore di Sighet, proprio grazie alla letteratura, ha potuto oggettivare tale istanza e riflettervi in modo sempre più maturo lungo un percorso quarantennale, da La notte fino agli ultimi saggi, memoir e racconti pubblicati in vita68. Del resto Wiesel fin dagli anni Cinquanta, a New York, ha incontrato e frequentato altri superstiti dei lager, confrontandosi con loro. Li ha ritrovati abitualmente in sinagoga per le preghiere e ha osservato in loro un atteggiamento che, nelle memorie pubblicate alla metà degli anni Novanta, avrebbe definito in termini contraddittori, oscillante tra la rassegnazione e l’impegno69. In un precedente soggiorno di lavoro come giornalista, in Palestina alla fine degli anni Quaranta, gli era già parso che la memoria della deportazione non si conciliasse con lo spirito del sionismo. Così leggiamo in Tutti i fiumi vanno al mare, dove si rievoca quella prima esperienza in Israele70:

Anche in Palestina si trattano i superstiti dei campi nazisti come malati o emarginati. O meglio, come poveracci. Si compiangono, si giunge fino a ospitarli, ma non si rispettano. Hanno sofferto? Colpa loro: bastava che lasciassero l’Europa, come gli era stato consigliato; o che combattessero, insorgessero contro i tedeschi. In altre parole, gli immigrati incarnano quello che il giovane Ebreo in Palestina rifiuta di essere: una vittima; rappresentano l’aspetto peggiore della storia ebraica, l’Ebreo debole, prono, che ha bisogno di essere protetto; personificano la diaspora e le sue indegnità71.

Allo stesso modo, commentando il progetto di costruzione del memoriale ufficiale di Israele, lo Yad Vashem, Wiesel ricorda che se esso è dedicato al coraggio, alle imprese eroiche del combattente e del resistente, «le vittime – morti e superstiti – meritano sì e no compassione o pietà. La sorte delle vittime è meglio non evocarla, soprattutto in pubblico. È un argomento imbarazzante. Da qui la sensazione che ha il sopravvissuto di essere ingombrante, indesiderabile»72.
Non è detto che il processo Eichmann abbia davvero segnato, in questa percezione del sopravvissuto, una netta cesura: in realtà, ricorda Elena Loewenthal, anche nell’epoca successiva al processo al gerarca nazista, in Israele «il fatto di essere stati vittime dell’Olocausto non era avvertito come una menzione d’onore, anzi. Nella costruzione del “nuovo ebreo” cui lo stato d’Israele stava lavorando, e prima di allora lo aveva fatto il sionismo, conquistare una dignità negata per millenni dalle persecuzioni, dal disprezzo e dall’emarginazione significava in primo luogo prendere in mano il proprio destino, rifiutando quello di vittima inerme e designata: mai più come pecore al macello»73.
Energia, slancio, intraprendenza: questi valori, aggiunge Loewenthal, avrebbero fondato l’immagine del nuovo cittadino israeliano, in contatto con la terra e con il lavoro manuale. Sono valori che nella narrativa di Wiesel risultano sempre accompagnati dai loro opposti, in una contraddizione costante: ne Il mendicante di Gerusalemme, la novità della guerra del ’67 è la reazione degli ebrei, che non è mai stata così unitaria:

Alcuni intellettuali che, fino a quel momento, avevano vissuto la condizione di ebrei come un’imbarazzante contraddizione, adesso la rivendicavano apertamente. Gli ebrei integrati da tempo dimenticavano i loro complessi, gli ultraortodossi il loro fanatismo […] Di colpo ciascuno si scopriva responsabile della sopravvivenza collettiva74.

Inoltre, in occasione di una prova che metteva in questione l’esistenza stessa del popolo ebraico, il protagonista del romanzo del ’68 ha trovato la forza e il coraggio di farsi, da spettatore, «testimone»75, sfuggendo alla consueta dinamica della recita del male (che è limitata, come abbiamo detto, alle figure di carnefice, vittima e spettatore) per concedersi «un palpito, un lampo di vita»76. «Il fatto – osserva il narratore – è che tutti gli ebrei, dappertutto, vi hanno partecipato, ciascuno a proprio modo»77, spezzando una millenaria solitudine. È una determinazione collettiva che si riflette nelle scelte individuali: lo stesso David ha rinunciato «all’amore per la solitudine»78, adeguandosi alla vita militare. Il sopravvissuto protagonista de Il mendicante di Gerusalemme non si è liberato, comunque, del legame privilegiato con la morte: «Non potevo liberarmi di tutti gli amici che avevo avuto, di tutte le donne che avevo amato, che fossero morti o scomparsi»79. È questa la sua responsabilità spirituale. In un momento segnato dall’angoscia e dal dolore, la memoria gioca un ruolo decisivo, proiettando definitivamente la Shoah sul presente della storia ebraica:

Volti, nomi, oggetti: fuori dal tempo, alla deriva, sorgevano, volteggiavano, sparivano alla rinfusa per risorgere subito dopo, immutati ma più numerosi, sempre più numerosi. Immersi in un chiarore lunare, erano tutti alla portata della mia mano, del mio sguardo, ma quale afferrare, quale isolare? Ce n’erano troppi, e troppi che avevo dimenticato. Nessun episodio, nessuna espressione restava in me abbastanza a lungo perché vi scoprissi una via, un senso80.

La notte della coscienza, con la sua confusione e oscurità, ostacola la speranza ed è ancora motivo di inerzia, di immobilismo. Solo abbozzi di progetti, frammenti di iniziativa sono possibili per il sopravvissuto alla Shoah. Nella sua mente si affacciano soprattutto immagini di bambini orfani e di donne conosciute e mai dimenticate, presto scomparse. Vi sono anche figure di aguzzini e di vittime, di superstiti incontrati nuovamente nel dopoguerra, in fondo tutte «maschere»81 dello stesso protagonista. L’attesa del ritorno di Katriel è l’ultima forma assunta da questa passività, che la guerra del ’67 ha reso evidente e messo in questione. Esemplare, in tal senso, il racconto della presa della città vecchia di Gerusalemme negli ultimi due capitoli del romanzo: il ritmo della rievocazione è frenetico e procede per lampi di memoria, frammenti, intermittenza di ricordi82. Non c’è stato il tempo di «catalogare i volti»83 dei cadaveri di quella notte e neppure di soffermarsi con Katriel sulla necessità di colpire, di uccidere, di sostare in luoghi estranei, sconosciuti. «Solo il giorno prima, – osserva il narratore – un uomo che non conoscerò mai doveva trovarsi in quello stesso posto: a che cosa pensava? […] Dov’erano gli abitanti di quel paese? Dov’erano i bambini di quella casa?»84. Questa considerazione dà il via alle ossessioni e alle visioni oniriche che si frappongono al racconto delle ultime operazioni militari. La vista dei cadaveri di compagni e nemici spinge David a chiedersi «se tutto quanto non fosse stato che un sogno», «se io non avessi mai lasciato casa mia, il mio giardino e i miei amici»85. Katriel vi recita il ruolo di chi accetta l’angoscia, la disperazione, la «pazzia»86 di usare la violenza, ma risulta alla fine in crisi. David, il protagonista, non fa eccezione in tal senso; anzi, egli è un vincitore triste che, pur nell’esaltazione dell’avanzata verso la città vecchia, vede ovunque «un bambino che piange»87. L’immagine del «trionfatore»88 gli resta assolutamente estranea: è vero che quello che sancisce la conquista di Gerusalemme est non può essere un giorno di lutto, ma nel voto lasciato in uno degli interstizi del Muro del Pianto il protagonista può soltanto fermarsi a recuperare, per iscritto, un volto e un nome che porta incisi nella mente, renderli espliciti, testimoniarli: «Scrissi il mio nome: David ben Sarah. David figlio di Sarah»89. È una forma di liberazione della voce della madre in lui: la realizzazione del sogno di lei di venire a raccogliersi in preghiera presso quello stesso muro, ma anche l’espressione di un canto corale, collettivo, comunitario, quello di tutti i re, dei profeti, dei mendicanti, dei pensatori che hanno cercato e praticato ovunque «tolleranza» e «fraternità»90.
La conquista della città vecchia è così il preludio a un ritorno diverso, in un punto molto più lontano nel tempo e nello spazio, «dove l’inizio si confonde con una voce malinconica, straziante»91:

Una donna, mia madre, mi chiede: – Hai l’aria pallida, non sei malato, vero? – No, madre, sto bene. – Hai l’aria preoccupata, non sei senza amici, vero? – Li ho persi, madre. Li sto cercando. – Hai fatto bene a tornare, figlio. La storia è qui. – Qui? Dove? – A casa nostra. Ma non c’è più una casa nostra, c’è solo il manicomio con i suoi pazzi e i loro guardiani92.

La verità più profonda di David è di essere intimamente scisso: in parte egli è rimasto «laggiù, nel regno della notte, prigioniero dei morti»93, ad ascoltare «un’eco di voci estinte da tempo»94. Ha voglia di immergersi nelle «fiamme» per proteggersi «dai rumori della terra, dalle ombre laggiù, alle mie spalle»95, dice. Proprio le fiamme, insieme al fumo e all’oscurità della notte, in Wiesel sono gli elementi che più si legano alla memoria della Shoah e che ricorrono nella famosa pagina de La notte che racconta l’arrivo in lager e segna, secondo Annette Wieviorka, l’avvento dell’era del testimone nella cultura e nella letteratura del Novecento96. L’ultima immagine del delirio di David è la più significativa:

Adesso le vedo in maniera più netta, è impossibile sbagliarsi: la bambina, a bocca aperta, cerca un po’ d’aria, sta soffocando, ha sete, ma non dice niente per non infastidire sua madre, che è anche la mia97.

La menzogna che il protagonista ha vissuto a lungo era, in fondo, la paura di scoprirsi un abitatore di cimiteri, una vittima anch’egli, prima di essere un vincitore della guerra del ’67. Il paradosso è che la battaglia che ha visto finalmente unito il popolo ebraico non è stata vinta ribaltando, rovesciando la memoria delle persecuzioni passate, ma proprio grazie al contributo dei morti di tutte le città «di quel cimitero che fu l’Europa»98. Alla luce di questa considerazione possiamo interpretare anche la metafora incarnata dal mendicante, figura della proiezione della Shoah e in particolare della sopravvivenza alla persecuzione e allo sterminio nazista sul presente della vita di Israele e del popolo ebraico. Il mendicante del romanzo di Wiesel non è interessato all’elemosina, chiede invece di essere guardato, osservato, ascoltato99: i mendicanti «non vogliono più niente, nient’altro che lo sguardo ammiccante e affettuoso di un essere pacificato, il silenzio, il biancore di una mano, il chiarore di una lampada in lontananza, in un paese ospitale. Sono soli e odiano la solitudine, quella solitudine fatta di costrizione, di rimorsi»100. Dovrebbero concedersi, augurarsi un altro tipo di solitudine, quella che «suscita in loro un amore vero e vulnerabile, un desiderio di crescita, uno slancio ampio, un volo verso l’altro»101. Anche questa è una contraddizione irrisolta: del resto la Shekinah, la presenza divina che ha seguito il popolo ebraico fin nell’esilio, «è presente anche nella contraddizione»102. Contraddittoria, ancora, è la condizione denunciata nel breve epilogo del romanzo, dove la pacificazione del dopoguerra è soltanto apparente:

I guerrieri sono tornati alle loro case, i morti alle loro tombe. Gli orfani imparano nuovamente a sorridere, i vincitori a piangere. Sì, la guerra è finita e il mendicante lo sa. È solo, e questo non lo sa103.

Significativamente il destino degli orfani, in cui il sopravvissuto si è più volte immedesimato, non coincide più con quello dei vincitori, che invece sono risospinti nel passato, mentre la condizione di solitudine degli ebrei pare ripristinata. Per dirla con le parole di David, come «adoperarsi per i vivi senza, per ciò stesso, tradire gli assenti»104 resta una questione aperta, in conclusione de Il mendicante di Gerusalemme.


  1. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, Milano, Edizioni Terra Santa, 2015, p. 7.

  2. Ibidem.

  3. Cfr. E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 233; G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, nuova edizione rivista e ampliata, Torino, Einaudi, 2002, pp. 40-41.

  4. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 7.

  5. Ivi, p. 204.

  6. Ivi, p. 7.

  7. Ibidem.

  8. Cfr. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 202.

  9. Ivi, p. 74.

  10. Ivi, p. 79.

  11. Ibidem.

  12. Ivi, p. 8.

  13. Cfr. R. Ertel, Écrit en yiddish, in M. de Saint-Chéron (a cura di), Autour d’Elie Wiesel. Une parole pour l’avenir, Colloque de Cerisy, Paris, Odile Jacob, 1996, pp. 21-40; A. Cavaglion, Sopravvissuti: Primo Levi, Elie Wiesel, Jean Améry e altri, in M. Cattaruzza et al. (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. II: La memoria del XX secolo, Torino, UTET, 2006, pp. 421-41; R. Dulong, Transmettre de corps à corps, in C. Darnier, R. Dulong (éds.), Esthétique du témoignage, Caen, Éditions de la Maison des Sceinces de l’homme, 2005, pp. 241-52. Sull’uso dello yiddish, si veda A. Wieviorka, L’era del testimone, Milano, Cortina, 1999, pp. 48-51, e N. Seidman, Elie Wiesel and the Scandal of Jewish Rage, in «Jewish Social Studies», III/1, 1996, pp. 19-35.

  14. Cfr. G. Lissa, Dio nella tempesta. Wiesel e la Sho’ah, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa (a cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici-Vivarium, 1998, pp. 635-68; A. Neher, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato, Marietti, 1983; M.B. Cohen, Elie Wiesel. Variations sur le silence, La Rochelle, Rumeur des anges, 1988; G.B.Jr. Walker, Transfiguration, in R. Horowitz (ed.), Elie Wiesel and the Art of Storytelling, North Carolina, Mc Farland & Company, 2006, pp. 155-80; S. Levis Sullam, Elie Wiesel e Primo Levi, memorie divise di Auschwitz, in Aa. Vv., Oltre la notte. Memoria della Shoah e diritti umani. In occasione degli 80 anni di Elie Wiesel, a cura della Comunità Ebraica di Venezia, Firenze, La Giuntina, 2009, pp. 95-116.

  15. Si veda lo scritto intitolato Difesa dei morti, in E. Wiesel, L’ebreo errante, Firenze, La Giuntina, 1983, pp. 157-79.

  16. Si veda, in particolare, il secondo volume delle memorie dello scrittore: E. Wiesel, E il mare non si riempie mai, Milano, Bompiani, 2003, p. 130.

  17. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 8. Si vedano ancora, nello stesso romanzo, pp. 107-8.

  18. Ivi, p. 8.

  19. Ibidem.

  20. Cfr. S. Levis Sullam, Figure della memoria ebraica di Auschwitz, in M. Cattaruzza et al. (a cura di), Storia della Shoah, cit., vol. II: La memoria del XX secolo, Torino, UTET, 2006, pp. 768-809.

  21. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., pp. 9-10.

  22. Cfr. E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, Milano, Bompiani, 2002, pp. 428-9, e Id., La città della fortuna, Firenze, La Giuntina, 20122, p. 17.

  23. Al matrimonio, avvenuto nell’aprile del ’69 a Gerusalemme, sembrano essere intervenuti «invitati invisibili», vale a dire di familiari e amici inghiottiti dal lager: cfr. E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, cit., p. 492, e F.M. Greco, La memoria dei salvati. Elie Wiesel e Primo Levi di fronte agli oppressori, Roma, Carocci, 2020, p. 145.

  24. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., pp. 11-12.

  25. Ivi, p. 12.

  26. Ibidem.

  27. Ivi, p. 14.

  28. Ivi, pp. 17-18.

  29. Ivi, p. 20.

  30. Cfr. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 21.

  31. Ivi, p. 20.

  32. Ivi, p. 23.

  33. Ivi, p. 25.

  34. Ivi, p. 31.

  35. Ivi, p. 31.

  36. Ivi, p. 33.

  37. Cfr. E. Wiesel, La notte, cit., pp. 11-18.

  38. Cfr. Id., Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 80.

  39. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 35.

  40. Ivi, p. 38.

  41. Ivi, p. 51.

  42. Ivi, p. 47.

  43. Ivi, p. 45.

  44. Ivi, p. 57.

  45. Ivi, p. 48.

  46. Ivi, p. 54.

  47. Ivi, p. 61.

  48. Ibidem.

  49. Ibidem.

  50. Ivi, pp. 62-63.

  51. Ivi, p. 64.

  52. Cfr. M. Sozzi, La notte di Auschwitz. La concezione del male nei testi letterari di Elie Wiesel, Massa, Transeuropa, 2014, p. 83.

  53. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 65.

  54. Ivi, p. 69.

  55. Ivi, p. 88.

  56. Ivi, p. 15.

  57. Ivi, p. 69.

  58. Ivi, p. 83.

  59. Ivi, p. 84.

  60. Cfr. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., pp. 81-85.

  61. Ivi, p. 88.

  62. Ivi, p. 90.

  63. Ivi, p. 97.

  64. Ivi, p. 102.

  65. Ivi, p. 103.

  66. Ivi, p. 104.

  67. Ivi, p. 109.

  68. Cfr. F.M. Greco, La memoria dei salvati, cit., pp. 133-79.

  69. Cfr. E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, cit., p. 410.

  70. Anche T. Segev, The Seventh Million. The Israelis and The Holocaust, New York, Hill & Wang, 1993, spiega che nel primo decennio di vita di Israele l’immagine dell’ebreo pioniere e combattente ha prevalso e marginalizzato, nel discorso pubblico, la figura del reduce dei campi nazisti. Di diverso avviso, comunque, è D. Lipstadt, Il processo Eichmann, Torino, Einaudi, 2014, pp. 163-65.

  71. E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, cit., p. 205. Il breve passo è citato anche in F.M. Greco, La memoria dei salvati, cit., p. 39.

  72. E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, cit., pp. 206-07.

  73. E. Loewenthal, Contro il Giorno della Memoria, Torino, Add editore, 2014, p. 45.

  74. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 111.

  75. Ivi, p. 112.

  76. Ibidem.

  77. Ivi, p. 115.

  78. Ivi, p. 117.

  79. Ivi, p. 118.

  80. Ivi, p. 126.

  81. Ivi, p. 127.

  82. Cfr. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., pp. 163-95.

  83. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 171.

  84. Ivi, p. 177.

  85. Ivi, p. 185.

  86. Ivi, p. 184.

  87. Ivi, p. 186.

  88. Ivi, p. 188.

  89. Ivi, p. 189.

  90. Ivi, p. 190.

  91. Ivi, p. 127.

  92. Ibidem.

  93. Ivi, p. 129.

  94. Ibidem.

  95. Ibidem.

  96. Cfr. E. Wiesel, La notte, cit. pp. 39-40, e A. Wieviorka, L’era del testimone, cit., pp. 19-69.

  97. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 193.

  98. Ivi, p. 194.

  99. Cfr. E. Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, cit., p. 201.

  100. Ivi, p. 139.

  101. Ibidem.

  102. Ivi, p. 200.

  103. Ivi, p. 202.

  104. Ivi, p. 204.


The study focuses on the metaphors of the Holocaust in Le mendiant de Jérusalem («The Beggar of Jerusalem»), a novel by Elie Wiesel published in 1968, whose protagonist and narrator David reenacts the experience of the Six-Day War, of which he is a veteran. The ’67 conflict resumed and carried to extremes, among Jews, the anamnesis initiated by the Eichmann trial in the early 1960s: the war was perceived as a new threat of annihilation of the Jewish people. David is a sad victor who, even in the exaltation of the advance toward the Old City of Jerusalem, sees everywhere a child crying. The metaphors of darkness and night, which appeared in Wiesel’s most famous work of testimony, The Night (1958), recur in Le mendiant de Jérusalem. The emphasis is on the condition of isolation suffered by the Jewish people, but the war, which ended in an unexpected victory for Israel, is described as «the revolt of the Jewish survivors of Warsaw». The kinship of the Six-Day War with the Shoah derives, however, not only from the recurring metaphors and more explicit similarities, but from the mythopoetic and sacred character that memory holds, according to Wiesel, and from the return of the repressed in the form of ghosts of the past, which crowd the minds of the survivors in this novel as in other narrative texts, both long and short, written between the 1960s and 1970s by Elie Wiesel.